Opinione: Libia, di Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini


Un reportage a fumetti che dà notizia di una Libia diversa da quella dei telegiornali e dei post sui social. È la Libia dei libici, la Libia delle code fuori dalle banche per procurarsi una moneta che non ha più valore. La Libia dei ragazzi che hanno combattuto il regime di Gheddafi e ora lo rimpiangono.
«Un’opera di graphic journalism che dà voce a chi vive una realtà dilaniata dalla guerra, segnata da ricatti e abusi quotidiani» – Robinson
Da circa un decennio la questione libica divide profondamente l'opinione pubblica italiana. Da un lato chi è stato favorevole all'intervento armato nel 2011, dall'altro i contrari. Da un lato – soprattutto – chi pensa che il flusso dei migranti verso le nostre coste vada fermato con ogni mezzo, e che i centri di detenzione "legali" e illegali in Libia siano una soluzione, dall'altro chi ritiene che i migranti imprigionati in Libia abbiano il diritto di fuggire ed essere salvati da trafficanti e sfruttatori. Bianco o nero; pieno o vuoto; tutto o niente. Ma come sempre la realtà è più complessa. Occorre conoscerla. Questo volume dà notizia di una Libia diversa da quella dei telegiornali e dei post sui social. È la Libia dei libici, la Libia delle code fuori dalle banche per procurarsi una moneta che non ha più valore. La Libia dei ragazzi che hanno combattuto il regime di Gheddafi e ora lo rimpiangono perché almeno, "quando c'era lui", si sentivano sicuri; e non mancavano soldi, corrente elettrica, benzina. La Libia delle madri ferme alla finestra in attesa di figli che non torneranno. La Libia degli anziani che hanno attraversato decenni di dittatura e si guardano sempre le spalle. La Libia della gente comune che subisce ogni giorno ricatti dei militari, abusi, rapimenti, e vive perennemente nel terrore.

È davvero difficile mettersi davanti al pc e riuscire a scrivere qualcosa su questa Graphic Novel, anche perché smuove rabbia. Non verso di "loro", ma verso di "noi", in particolare verso chi si prende diritto di parola davanti una delle situazioni più assurde e drammatiche (e complesse) degli ultimi anni, con la faccia tosta di criticare sempre e solo i più deboli. Perché è più facile, ammettiamolo. Informarsi e prendersela con chi ha creato tutto questo, è davvero troppo per queste "persone". 

Questo insieme di storie si legge in pochissimo, ma lascia dentro dubbi e domande che vanno oltre quelle pagine, già comunque ricche e che riescono ad instillare molte cose diverse ad una semplice e veloce lettura. Chi ne sa qualcosa, si troverà ad approfondire qualche argomento. Chi, non avendo mai avuto tempo e/o voglia di scavare per trovare la verità fra mille testate "giornalistiche", potrà scoprire ancora di più ed iniziare ad avere un occhio più critico, per distinguere realtà da...altro.

In linea molto generale, sappiamo dove si trova la Libia. Cosa succede lì. 
Banalmente, tutti noi italiani, sappiamo che è legata ai clandestini. Ai barconi che affrontano il mare. Gente disperata che rischia la vita per una speranza, un sogno. C'è chi li definisce così, come (ahimè) ci sono molti che indirizzano solo odio verso queste persone che hanno avuto la sfortuna di esser nati lì. 
Perché è sfortuna, nessuno può scegliere.

Se ne parla spesso e di nuovo aggiungo un enorme purtroppo, poiché c'è tantissima disinformazione intorno alla vicenda mentre viene raccontata. Si strumentalizzano le persone, indirizzando un enorme odio senza motivo che parte dalla politica più becera che sfrutta ignoranza e che scende fino al cittadino (analfabeta) comune. Si, analfabeta, perché (per mia esperienza) crede ad ogni bufala e prova un risentimento assurdo, senza però aver mai riflettuto sul perché odia "loro" e non altri. 
Anche se non gli cambia molto. L'importante è odiare. Chi, non importa. 
Non migliora la loro vita, ma non comprendono. 
Sto divagando, scusate...

Si divide in sei racconti. 
Parte dal massacro di Abu Salim (1996). Nasce tutto da una rivolta carceraria, dove i prigionieri chiedevano il cambiamento della situazione disumana in cui erano costretti a vivere. Ci fu un breve negoziato, che però non andò a buon fine. Seppur i carcerati tornarono nelle loro celle volontariamente, vennero poi mandati in un cortile ed ammazzati a colpi d'arma da fuoco. 1270 morti.
Solo molto più tardi si scoprì tutto. (Mai pretese indagini. Mai avuta giustizia).
Ci parla di questo uno dei sopravvissuti, rinchiuso per più di vent'anni, solo per aver avuto una fede diversa. Attraverso i suoi occhi vediamo la vergogna, la voglia di dimenticare, quasi di lasciarsi sopraffare purché con ciò possa esser lasciato in pace. La rassegnazione (e distruzione) di un uomo. Come tanti altri. 

Si passa ad accennare alle migrazioni, finendo in un centro di detenzione. 
Era il 2014 ed erano "ospitate" 1200 persone a Zwiya, dove Francesca riesce ad entrare e ce ne parla. 
Condizioni disumane, sovraffollamento, niente cibo né aria,...e tanta puzza. La giornalista fa una riflessione estremamente potente partendo da questo dettaglio:

Ma come si fa? 
In un gesto a dire loro: Tu puzzi.

Perché le consigliano di mettere una mascherina per coprire l'odore, ma lei ne è inorridita.
Gente che scappa dalla fame, dalla guerra, dal terrorismo,...arrestata senza motivo e rinchiusa in un posto del genere, senza dignità ne rispetto. Una mascherina sarebbe l'ennesimo affronto. 

E ci introduce ad uno dei problemi centrali della Libia: le forze armate. Che torneranno più avanti. 

Si passa a parlare del traffico di esseri umani. Di come la Guardia Costiera di Garabulli (sessanta chilometri ad est di Tripoli), dove moltissimi barconi partono, non ha nessun mezzo né per fermare, né per aiutare chi parte. Vediamo la drammaticità di uno Stato a cui non importa. Vediamo le forze armate che minacciano chi tenta di fermare e/o soccorrere, perché il traffico di esseri umani porta loro soldi. Scopriamo un pezzetto in più riguardo la rete che mette insieme la gente, organizza i viaggi, e manda in mare i disperati. Una catena difficile da spezzare. 
Si parla della figura dello scafista. Che non esiste. Chi organizza questi viaggi sa benissimo cosa rischia e non mette la sua vita in pericolo. "Addestra" una delle persone che salirà a bordo e stop. 
Gente che non si sente colpevole, perché è così che ha scelto di vivere. Attribuendo colpa ai nostri governi che non guardano, perché non fa comodo. 
Un indifferenza generale che fa rabbrividire. 

Ci viene presentata Wered, una ragazzina di sedici anni, eritrea, poverissima, a cui la famiglia da i soldi per andarsene, per lasciare l'Africa e poterli aiutare economicamente. E lei parte. Affronta il deserto, sofferenze atroci, un viaggio terribile. E finisce nelle mani dell'ISIS. Violenza e soprusi. Liberata dai libici, torna in carcere. Vuole uscire, ma non ha dove andare. L'unica via sarà il mare, sperando di non morire. 
Viene mostrata parzialmente la condizione delle donne, prigioniere di guerra e strumenti di sfogo per i carcerieri. Di come lo stupro stia tornando come metodo punitivo verso avversarie e/o prigioniere (già affrontato in alcuni articoli quando si parla delle donne Curde che combattono l'ISIS). 

Si parla di soldi. Di come uno Stato ricchissimo, abbia in realtà pochissimo denaro per i cittadini. Spesso minacciati dalle milizie, che "chiedono" una parte dei soldi per poter velocizzare i prelievi alle banche. 
Qui viene affrontato e spiegato, almeno in parte, questo problema che è un po' il fulcro di tutto
Senza un Governo forte abbastanza da distruggere le milizie, hanno preso il controllo e nessuno vuole fermarle. E fra i cittadini non c'è voglia di ribellarsi, visto che dall'ultima volta che lo hanno fatto la situazione è precipitata e si chiedono se possa ancora andare peggio. 
Un tema delicato e davvero complicato, che non ho proprio la facoltà di saper riassumere. 

E per ultimo si torna a riaffrontare la vergogna di chi ormai ha abbassato la testa. La rassegnazione che ha avvolto molti fra quelli che si erano ribellati e che non sono riusciti a trasmettere questa voglia di libertà ai figli. Per paura e rassegnazione, un misto che non può che far riflettere chi legge: 
se fossimo noi al loro posto?

Ed in un certo senso, "lo siamo". Sicuramente non abbiamo milizie armate fuori dalle porte, ma abbiamo già gente che inneggia alla violenza quotidianamente su troppi fronti per citarli brevemente, che la usa come metodo per affrontare i problemi, che distrugge il "nemico" quando questo vuole solo giustizia. Che pretende di avere ragione e alza il pugno per ottenerla, spesso solo in casa o verso i deboli, e/o fa gruppo ed assalisce in massa l'avversario, perché la frustrazione viene da chi poi non sa affrontare nessuno nella vita comune in modo civile e maturo. Qualunque siano le sue idee. 

Siamo anche noi parte del problema. 
Siamo stati zitti troppo a lungo.
Siamo anestetizzati alla violenza. 
Siamo stati "educati" a guardare chi sono vittima e carnefice, prima di emettere opinione. 
Siamo circondati da bestie che esultano quando muore della gente innocente. 
Siamo in un paese di incivili ed ignoranti, che continuano ad aumentare e credere che il numero sia indice di aver l'idea giusta. 

Sarà banale, ma possiamo nel nostro piccolo cambiare le cose anche solamente informandoci e diffondendo le notizie corrette. 
Questo è un piccolo volume, ma può fare tanto. 
Semplice, ben creato e con idee interessanti da analizzare, permette di capire almeno "qualcosa" per iniziare a spiegarlo a chi vorrà ascoltare. O per tentare di spiegarlo a chi crede di aver l'unica verità in tasca, ma (ahimè) ennesimi articoli "clickbait". 
Se vi incuriosisce, compratelo! 


Se vi va, fatemi sapere se lo avete letto o pensate di farlo. 
Se conoscete altre letture per approfondire il tema (leggère, non riesco proprio a star dietro a saggi; più forte di me e me ne vergogno).
O semplicemente se vi va di parlarne...
Scrivetemi pure. 

Nessun commento:

Posta un commento