Ricordo che se seguirete questo Blogtour fino in fondo potrete aggiudicarvi una delle sei copie in palio!!
Regolamento BlogTour:
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2. Mettere "Mi Piace" alla pagina Facebook del libro "Il Creasogni";
3. Unirsi ai lettori fissi di tutti i blog aderenti l'iniziativa;
4. Condividere tutte le tappe sui vostri social;
5. Chi avrà seguito il regolamento fino alla fine e avrà sognato con noi potrà vincere una delle sei copie del libro in palio;
I vincitori dei due giveaway verranno estratti tramite random ( saranno pubblicati i video nella tappa del 3 Agosto)
Se siete nuovi, siete ancora in tempo per partecipare! ;)
GLI ESTRATTI: PRIMA PARTE
Ettore – anzi, il «SignorEttore», come lo chiamavano i compaesani di Mangiatrecase – nel suo mestiere non aveva rivali, unico com’era al mondo in quell’arte: il solo a essere in grado di dare vita ai sogni e di farli arrivare a chiunque decidesse; di crearli, nel vero senso della parola, modellandoli con le mani e con la mente, nello stesso modo in cui un artigiano, seduto al tornio, lavora a un vaso di creta. E così stava facendo quel giorno con la signora Battistelli.
Immaginarli e renderli vivi per gli altri era al contempo un piacere e un castigo, per chi come lui con i sogni aveva sempre avuto un rapporto tempestoso: dapprima, giovane paladino della razionalità con la sua aria di saccente sufficienza, li aveva ignorati e aveva persino deriso chi, al suo fianco, ne aveva bisogno e se ne riempiva gli occhi e la mente, nutrendone il proprio amore. Poi, con gli anni e le delusioni della vita – e del cuore – ne aveva scoperto il fascino magnetico, e aveva cercato di recuperare il tempo perduto senza sognare, senza amare a pieno.
Scoperta tardiva, perché – dopo avere visto il suo sogno più importante svanirgli tra le mani – si era ritrovato a non essere più capace di sognare in prima persona, quasi fosse una punizione del cielo per ricordargli continuamente gli errori di un tempo, il suo essere stato così cieco e cinico di fronte a chi, invece, alla razionalità preferiva vite oniriche, pensieri e viaggi con la fantasia.
Era il suo fardello, questa sua impotenza dilaniante e irrecuperabile. Un macigno, pesante come il rimorso di un ti amo non detto per tempo.
L’incapacità di sognare lo aveva sorpreso una domenica d’inverno. Nevicava, come non faceva da anni oramai. Se ne accorse di colpo, quando il respiro gli venne a mancare. Si guardò intorno, chiuse gli occhi. Capì. E ne ebbe subito paura.
Quella stessa sera, nel letto, si rese conto dell’antipodico arrivo di quel peculiare «dono» che stavolta avrebbe cambiato non la sua, di vita, ma quella degli altri: era la capacità di realizzare i sogni, i più avvolgenti e intensi che mai si fossero immaginati. A lui, ora, spettava il compito di crearli. Come fossero pane, da impastare per gli affamati. Come acqua. Servita però da un cameriere perennemente assetato.
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«Basta, andate via! Lasciatemi in pace!». D’improvviso Ettore sentì una voce giù in strada.
«Basta! Basta!», continuava quella voce quasi rotta dal pianto.
In fondo al vicolo, al Giardino delle Api, un gruppo di ragazzini ne aveva accerchiato un altro, più mingherlino.
«È il ladro di poco fa…!».
Non ci pensò neppure un attimo. Si mise a correre, deciso a intervenire per aiutare il bambino. Che era salito su una palla di cannone di marmo e brandiva un pezzo di legno come fosse una spada, menando fendenti che tagliavano l’aria a destra e a manca.
Qualcosa non andava, forse i tre erano dei prepotenti che si volevano approfittare di quel bambino più piccolo. «Beh, che fate qui? Via! Via, a casa!», gridò ai ragazzi. Che in un attimo si dileguarono.
Erano rimasti soli. Ettore si avvicinò, lentamente. Gli girò attorno, guardandolo serio mentre quello rimaneva impietrito.
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«Sicché ora ti dai anche alla guerra eh?», disse mettendo il dito sulla punta di quella spada improvvisata.
«Bell’arma che ti sei costruito, sei un guerriero coraggioso… Giusto?», gli chiese con una faccia soddisfatta come a dire «caro mio, la pacchia è finita, da qui non scappi».
«Mmm», bofonchiò il bambino.
Era lì, davanti ad Ettore, gli occhi pieni di lacrime e quel labbro inferiore che proprio non la smetteva di tremare. Anche per un capitano coraggioso come lui era difficile mantenere la calma.
«Quanti anni hai, soldato?», chiese Ettore poggiandogli il dito sul naso.
«Quaaattroooooooo!», urlò il bambino con tutta la forza che aveva in corpo.
«Uh! Ho capito, ho capito, calmati. Quattro, bene, che bisogno c’è di strillare così?».
Non ci volle molto per capire che dietro quell’urlo c’era solo paura, e anche tanta. E così decise di lasciar correre le ramanzine sul furto, sulla fuga e tutto il resto.
Silenzio dall’altra parte: il bambino continuava a starsene lì fermo impalato, anche se le guance cominciavano a passare dal rosso ciliegia a un colorito più rosato, e gli occhi si stavano asciugando.
«Come ti chiami?», gli chiese Ettore. «Quattro!», rispose lui.
«Quattro? Ma come quattro? Ma no, non quanti anni hai, come ti chiami?», chiese nuovamente.
«Quattro!», gridò ancora quello.
Niente da fare. E dire che la conversazione andò avanti a lungo. Ma del nome quel bambino non volle dire nulla. «Quattro!», continuava a ripetere.
«E va bene, va bene, caro mio. Visto che non me lo vuoi dire, ti darò io un nome. Se poi cambierai idea, mi dirai il tuo e useremo quello, d’accordo?», gli chiese offrendogli il mignolo.
«Sì! Quattro!», rispose il bambino, afferrandolo con le mani e scuotendolo in alto e in basso: il patto era stato siglato. «Bene, allora, dato che conosco solo la tua età, e sei molto piccolo, ho deciso che ti chiamerò Catello, che significa cucciolo! Che ne pensi? Affare fatto?».
«Affare fatto», sembrò dire quello con un sorriso paffuto stampato finalmente sul viso.
Catello gli piacque, evidentemente, perché lo accettò da subito come quello in cui si riconosceva meglio e di più al mondo. E poi lo faceva ridere, e anche molto: lo trovava simpatico, e non seppe dire di no. Da quel giorno impararono a conoscersi: ma il vero nome di Catello, quello, invece, non si seppe mai.
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«Guarda Melissa, un elefante! Li abbiamo trovati!», urlò Ettore, indicando un grosso pachiderma. Era gigantesco, forse il più grande del circo, anzi no, il più grande che un circo avesse mai potuto avere. Era fermo, al centro di una piazza, con attorno centinaia di persone festanti che gridavano e scherzavano intorno a quell’animale che, fino a quel momento, avevano visto solo nei libri di avventure.
In alto, sopra la schiena dell’elefante, un piccolo palco con due persone. Uno doveva essere il suo domatore, perché continuava ad accarezzarlo per farlo stare calmo davanti a quegli esseri piccoli e rumorosi che gli saltavano attorno. L’altro invece era una vecchia conoscenza: magro, alto, divisa rossa e mostrine in oro. Era la stessa persona che aveva presentato lo spettacolo del circo a Mangiatrecase. Finalmente una buona notizia, dunque.
«Melissa, sono loro, riconosco quell’uomo, quello con la divisa rossa!».
Lei si fermò, rabbrividì. Era felice, è vero, di averli trovati, ma la sola vista di quell’elefante e di quella divisa le aveva riportato alla mente ricordi bruttissimi.
A volte i ricordi restano sepolti in alcuni campi lontani, nella mente. Ma sono sempre lì, pronti a tornare, magari dopo anni, per influenzare le nostre scelte, le nostre vite. Finché non decidiamo di affrontarli e liberarcene per poi ricominciare la stessa vita di prima, quella che avevamo provato a cancellare, stavolta felice e senza limiti. Melissa ora, così piccola, stava affrontando il suo passato. Neppure i suoi genitori c’erano, in quel momento. Era sola. Perché forse solamente da sola avrebbe potuto farcela.
«L’ho visto…», rispose, «l’ho visto…».
«Ma che ti prende? Non sei contenta?».
«Sì… sono contenta», disse lei ancora scossa. Poi si fece forza, guardando gli occhi di quell’uomo che la osservava con affetto. E prese coraggio.
«Andiamo allora!», gridò.
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Il treno si fermò, avvolto da una nuvola di vapore, con quelle sue grandi ruote di metallo che al momento di frenare fecero partire un fischio assordante, stridendo contro i binari e scaraventando scintille ovunque.
I due salirono a bordo e si sedettero, immaginando già l’arrivo. Erano in viaggio da appena un giorno ma sembrava che si conoscessero da mesi, da anni.
Avevano parlato tanto, e nell’arco di poche ore avevano scoperto cose – dell’altro e di sé – che forse non avevano mai capito fino a quel momento. Un cammino alla ricerca di qualcuno, sì, ma anche un viaggio alla scoperta dei propri limiti, da affrontare e, forse, superare.
Dopo pochi minuti di riposo il treno sembrò di nuovo svegliarsi, nervoso.
Incominciò con qualche sbuffo, qua e là, poi iniziò a tremare, come una pentola in ebollizione.
La Prossima tappa si terrà su
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